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Lush, il business vola con la cosmesi "etica"
In vent'anni la piccola azienza nata nella provincia inglese è diventata un gruppo globale con 11mila dipendenti e oltre mezzo miliardo di sterline di fatturato. Grazie a una scelta "controcorrente"
Oggi vi raccontiamo una storia, come l'etica può creare un grande brand.

Dal tinello di casa dei cofondatori Mark e Mo Constantine, dove sono nati gli shampoo solidi e le bombe da bagno di mille colori, alla nuova Kitchen, in cui oggi vengono prodotti cosmetici in edizione limitata venduti solo on line. In mezzo ci sono due decenni in cui Lush, da piccolissima azienda della provincia inglese, è diventata un gruppo internazionale con 11 mila dipendenti e oltre mezzo miliardo di sterline di fatturato nel 2015, presente con più di 900 negozi in 49 Paesi.
Punti di forza del marchio sono prodotti particolari, spesso senza concorrenti diretti, e un modello di business molto diverso da quello dei colossi della cosmesi. In un settore ad alto grado di automazione, infatti, creme, saponi solidi, gel, maschere e trucchi Lush sono realizzati a mano, a partire da frutta e verdura fresche, nel 36% dei casi senza packaging, mai testati su animali anche quando in Europa non c'erano divieti stringenti come oggi. Colorati, con profumazioni intense e nomi ironici come "Rispetta i piedoni" o "Siamo a secco". I negozi vengono riforniti in certi casi anche tutti i giorni, e la produzione, nel 1995 concentrata nella cittadina inglese di Poole, oggi è distribuita su sette poli produttivi in sei Paesi (Gran Bretagna, Corea del Sud, Canada, Croazia, Giappone, Australia). "Nelle aziende tradizionali molti costi sono legati al packaging e alla pubblicità. Il nostro modello è differente e da noi c'è molto più spazio per accordi di fornitura etica con produttori di Paesi in via di sviluppo o progetti come il Lush Prize, attraverso il quale dal 2010 abbiamo devoluto 1,2 milioni di sterline a iniziative che puntano a fermare i test sugli animali", spiega il ceo Mark Constantine, perfettamente a suo agio in una camicia floreale in stile hawaiano.
Nel 2015, il gruppo ha registrato una crescita di circa il 21% e si prepara ad aprire nuovi punti vendita e ingrandire quelli esistenti. "Oggi i nostri mercati principali sono la Gran Bretagna, gli Stati Uniti e il Giappone, mentre abbiamo ancora molto spazio per crescere in Centro e Sud America e in Oriente, ma anche in Usa. E ci sono molte aree del mondo in rapido sviluppo in cui non siamo ancora presenti: Indonesia, Malesia, India", spiega il direttore del gruppo Karl Bygrave. L'Italia rappresenta il decimo mercato, ma anche nel nostro Paese il gruppo è in crescita: "Alla fine del 2007 il fatturato annuale si aggirava intorno ai 6 milioni di euro e i negozi italiani erano 20. Oggi i punti vendita sono 36 e per la fine dell'anno finanziario 2015-2016 stimiamo di raggiungere un valore delle vendite di circa 20 milioni di euro. Nel corso dei prossimi tre anni puntiamo ad una crescita del 50%: l'obiettivo è aprire una decina di nuovi negozi nei centri storici di Roma, Milano, Bologna, Firenze, Napoli, Venezia e Verona e almeno un centro benessere Lush Spa, format già presente in diversi altri Paesi del mondo", aggiunge l'ad di Lush Italia Alessandro Andreanelli.
La sfida oggi, lo ripetono tutti, è "manage our success", gestire il successo, riuscendo a mantenere un modello produttivo improntato all'artigianalità a ad alta intensità di manodopera (negli stabilimenti lavorano 2.000 dipendenti, che arrivano a 3.300 nel periodo natalizio) di pari passo con una crescita globale e con il continuo lancio di nuovi prodotti. "La nostra ambizione è il nostro problema principale", scherza Constantine. "Oggi per esempio utilizziamo molte materie prime da agricoltura biologica, ma non sempre i produttori riescono a tenere il ritmo della nostra crescita".
Con l'apertura a Poole a marzo 2014 della Lush Kitchen per i prodotti in edizione limitata e l'inaugurazione del negozio su tre piani in Oxford Street a Londra, ad aprile scorso, per il gruppo è iniziata una nuova fase in cui innovazione e scommessa sul digitale si uniscono al recupero delle proprie radici. Segue questo orientamento anche il piano di restyling dei negozi: più grandi, più interattivi, più simili a quella cucina di casa da dove tutto è cominciato. Solo in Italia coinvolgerà, entro giugno 2016, un totale di 15 punti vendita. Difficile però, dice Bygrave sorridendo, "prevedere come saremo tra dieci anni: il gruppo è guidato dalla creatività: le stesse persone che gestiscono gli affari creano anche cosmetici, e questo può portarci in molte direzioni diverse".
Punti di forza del marchio sono prodotti particolari, spesso senza concorrenti diretti, e un modello di business molto diverso da quello dei colossi della cosmesi. In un settore ad alto grado di automazione, infatti, creme, saponi solidi, gel, maschere e trucchi Lush sono realizzati a mano, a partire da frutta e verdura fresche, nel 36% dei casi senza packaging, mai testati su animali anche quando in Europa non c'erano divieti stringenti come oggi. Colorati, con profumazioni intense e nomi ironici come "Rispetta i piedoni" o "Siamo a secco". I negozi vengono riforniti in certi casi anche tutti i giorni, e la produzione, nel 1995 concentrata nella cittadina inglese di Poole, oggi è distribuita su sette poli produttivi in sei Paesi (Gran Bretagna, Corea del Sud, Canada, Croazia, Giappone, Australia). "Nelle aziende tradizionali molti costi sono legati al packaging e alla pubblicità. Il nostro modello è differente e da noi c'è molto più spazio per accordi di fornitura etica con produttori di Paesi in via di sviluppo o progetti come il Lush Prize, attraverso il quale dal 2010 abbiamo devoluto 1,2 milioni di sterline a iniziative che puntano a fermare i test sugli animali", spiega il ceo Mark Constantine, perfettamente a suo agio in una camicia floreale in stile hawaiano.
Nel 2015, il gruppo ha registrato una crescita di circa il 21% e si prepara ad aprire nuovi punti vendita e ingrandire quelli esistenti. "Oggi i nostri mercati principali sono la Gran Bretagna, gli Stati Uniti e il Giappone, mentre abbiamo ancora molto spazio per crescere in Centro e Sud America e in Oriente, ma anche in Usa. E ci sono molte aree del mondo in rapido sviluppo in cui non siamo ancora presenti: Indonesia, Malesia, India", spiega il direttore del gruppo Karl Bygrave. L'Italia rappresenta il decimo mercato, ma anche nel nostro Paese il gruppo è in crescita: "Alla fine del 2007 il fatturato annuale si aggirava intorno ai 6 milioni di euro e i negozi italiani erano 20. Oggi i punti vendita sono 36 e per la fine dell'anno finanziario 2015-2016 stimiamo di raggiungere un valore delle vendite di circa 20 milioni di euro. Nel corso dei prossimi tre anni puntiamo ad una crescita del 50%: l'obiettivo è aprire una decina di nuovi negozi nei centri storici di Roma, Milano, Bologna, Firenze, Napoli, Venezia e Verona e almeno un centro benessere Lush Spa, format già presente in diversi altri Paesi del mondo", aggiunge l'ad di Lush Italia Alessandro Andreanelli.
La sfida oggi, lo ripetono tutti, è "manage our success", gestire il successo, riuscendo a mantenere un modello produttivo improntato all'artigianalità a ad alta intensità di manodopera (negli stabilimenti lavorano 2.000 dipendenti, che arrivano a 3.300 nel periodo natalizio) di pari passo con una crescita globale e con il continuo lancio di nuovi prodotti. "La nostra ambizione è il nostro problema principale", scherza Constantine. "Oggi per esempio utilizziamo molte materie prime da agricoltura biologica, ma non sempre i produttori riescono a tenere il ritmo della nostra crescita".
Con l'apertura a Poole a marzo 2014 della Lush Kitchen per i prodotti in edizione limitata e l'inaugurazione del negozio su tre piani in Oxford Street a Londra, ad aprile scorso, per il gruppo è iniziata una nuova fase in cui innovazione e scommessa sul digitale si uniscono al recupero delle proprie radici. Segue questo orientamento anche il piano di restyling dei negozi: più grandi, più interattivi, più simili a quella cucina di casa da dove tutto è cominciato. Solo in Italia coinvolgerà, entro giugno 2016, un totale di 15 punti vendita. Difficile però, dice Bygrave sorridendo, "prevedere come saremo tra dieci anni: il gruppo è guidato dalla creatività: le stesse persone che gestiscono gli affari creano anche cosmetici, e questo può portarci in molte direzioni diverse".
Veronica Ulivieri
La Repubblica
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